Dicono di lui

La grande metafora della condizione umana.

Chi nasce prima, il pittore o l’illustratore?
La domanda, almeno in alcuni casi, non è peregrina e può dunque porsi legittimamente.

Per Paul Scharff la risposta sembra già nel suo curriculum, che lo dice disegnatore e grafico impegnato in tante e tante operazioni editoriali di nobile etichetta. Ma può nascerne l’equivoco che lo si consideri illustratore: che sarebbe vistosamente riduttivo, se è vero che Scharff si chiama a far prova di sé su presupposti sempre autorevolmente artistici, ossia autonomamente creativi, tali da predisporre un mondo inventivo tutto personale. È un mondo che si configura come una grande metafora della condizione umana, mediate l’ironica ma non impietosa costruzione di un bestiario immaginario, e purtuttavia non irreale, che può farsi specchio deformato e dolente di un campionario paradigmatico di distorte virtù umane.

È un’operazione di alto livello etico, oltre che profondamente colta, emergendo da radicate conoscenze letterarie e filosofiche; ed è operazione supportata da qualità grafiche ineccepibili, oltre che di riconoscibile segno. Siamo così allo Scharff litografo, si vuol dire autore di tavole litografiche da definirsi d’altri tempi, e viene da dire (cedendo al divertimento verbale) proprio del tempo della pietra, di quando cioè l’incisione avveniva sulla lastra di pietra.

 

Novembre 2006

Giuseppe Rosato
Critico d’arte e letterario, scrittore e giornalista.

PAUL SCHARFF. Nel regno della fantasia.

Benvenuti nel regno della fantasia!

Una fantasia spontanea e genuina, che non ha bisogno di filtri e non risente della presenza vincolante delle tante incrostazioni con cui la realtà quotidiana ci ha abituato a fare i conti. Dell’attenzione che alcuni fra i maestri dell’arte hanno riservato alle espressioni innocenti dei bambini già si ha conoscenza, tanto che il poeta belga Jacques Brel si è sentito in dovere di sottolineare che “Artista è chi invecchia senza mai diventare adulto”.

Ma, cosa si intende per tale termine?

Il concetto di “fantasia” riveste in psicanalisi numerosi significati, peraltro riscontrabili pure nelle ambiguità relative all’uso quotidiano del termine. Da una parte ci si riferisce ad esso in quanto attività immaginativa (sognare ad occhi aperti, fantasticare) come contrapposizione al pensiero ed al comportamento conforme. Dall’altra, in quanto attività mentale inconscia, che accompagna ogni pensiero, sentimento, comportamento, che può diventare o no cosciente, poiché dote estremamente individuale.

A noi interessa solo in quanto proiezione dell’attività umana, che si manifesta in modo latente o pronunciata a seconda dell’individuo.

In alcuni è così vitale e profonda da diventare primaria nella propria esistenza, fino a tramutarsi addirittura in una necessità che abbisogna giorno dopo giorno di essere alimentata.

Asge Jorn diceva che “non ci possiamo esprimere in modo puramente psichico. Il fatto di esprimersi è un atto fisico che materializza il pensiero. Dunque un automatismo psichico è organicamente legato ad un automatismo fisico”.

Del resto, l’apertura all’immaginario, istinto delle nostre necessità, coinvolge una sperimentazione senza complessi di ogni possibile ricerca tecnica, che a sua volta coinvolge ogni tipo di registro.

Fantasticare è comportamento profondamente umano, ma è difficile arrivarci, poiché pretende capacità persistente di escavo interiore, sino a raggiungere percezioni minime, a loro volta prodromi alle intuizioni, più o meno consapevoli. L’intuizione è come una lama: più viene affilata, più è tagliente ed incide.

Aggiungerei anche che la tecnica, elemento piuttosto trascurato nell’arte contemporanea, è elemento necessario per dare consistenza alle intuizioni psichiche. E’ il filo che lega indissolubilmente tutta la storia dell’arte, dagli albori sino ad alcune ricerche della contemporaneità. Scegliere una tecnica particolarmente adatta a trasformare in comunicazione i nostri sentori, siano essi narrazioni, sentimenti o moti istintivi, è quindi una condizione imprescindibile, perché la vera arte parla a tutti, al di là del tempo, dei luoghi, delle condizioni.

 

Questa premessa mi è necessaria per introdurre un personaggio alquanto singolare, che opera nel campo da lungo tempo e si distingue per la franchezza delle sue idee, l’onestà con cui le mette in pratica, l’originalità delle sue proposte artistiche, frutto di vasta cultura e di acute osservazioni.

Paul Scharff, origini olandesi ma residente da molti anni in terra varesina, ha innanzitutto una dote che lo rende diverso da altri autori: un forte senso critico che lo porta a creare le immagini con una forza inventiva che nasce dalla realtà, ma sembra prescindere dalla stessa.

E’ un naturalista convinto e guarda alla natura circostante con rispetto e pudore, non dimentico dei misteri che ancora conserva, affascinato dalle forme e dalla moltitudine di differenze che vivono in essa.

Le tante forme della nominazione sono entrate nel suo inconscio e sono diventate terreno fertile per una mistica visionaria, che sembra riportata agli albori per il modo con cui le sue invenzioni trascendono le figure usuali per imporne altre che si limitano ad alludere, ma sono diverse.

Scharff non dimentica la realtà, la modifica sostanzialmente per uscire dalle convenzioni, quasi a voler togliere tutto di inutile si frappone. Le sue diventano quasi figure mitologiche, ibride fra un regno e l’’altro: gli animali hanno atteggiamenti degli uomini, gli uomini assumono fisionomie di rapaci e predatori. Il regno vegetale, a sua volta, ha una vitalità conturbante, di una bellezza intelligente, equilibrata e statuaria.

L’autore, che ha tratto qualche spunto pure da Leonardo, si ricorda sicuramente quanto ha lasciato scritto il celebre artista-scienziato: “Nessuna azione naturale si po’ abreviare”.

Così , in “Preparazione alla lotta” due animali massicci, più che in una disperata contesa sembrano impegnati in una lezione di vita tra madre e figlio e tutto diventa giocoso per via di una maschera di colori sul muso che ne addolcisce teneramente l’aspetto, alterandone l’identità.

In “Empatia” una fila sonnacchiosa di strani animali (gli animali di Paul sono spesso strani, per via della non identificazione con le specie conosciute) avanza in fila indiana tenendosi per la coda, in un silenzio irreale. Come i bambini quando, dandosi la mano, iniziano un girotondo.

C’è poi il “Leone dell’Apocalisse”, tratto dall’Apocalisse di san Giovanni. Ha la pelliccia disseminata di occhi. Il leone è un animale maestoso e in questo caso la faccia è bonaria, ma i tanti occhi che cospargono la sua pelliccia sono davvero inquietanti. Sembrano indagarci intimamente, senza lasciarci un attimo di tregua, come a voler emettere un giudizio inappellabile.

Nel contempo però appare una precisa condanna per il modo con cui gli uomini hanno depredato il regno animale, mettendo in pericolo diverse specie. E ci fa riflettere anche sulla vacuità e la superficialità umana nei confronti dell’ambiente.

“Lo Spianatore”, tratto dalla “Zoologia fantastica” di Jorge Luis Borges, è simile all’elefante e quando appare su una litografia in tutta la sua possanza con due lunghe zanne bianche, allora non possiamo fare a meno di pensare a quanti di questi animali pacifici siano rimasti vittime della caccia spietata che l’uomo ha intentato per impadronirsi delle loro zanne.

In una delle strisce di “Baffin”, un tricheco, acuto osservatore, appostato su una lastra di ghiaccio dell’estremo Nord, si vede arrivare incontro, su un’altra lastra, un pinguino. Allora un gabbiano, che di solito lo accompagna, gli sussurra: “Ti presento il primo emigrato del Sud”.

L’ironia di Scharff viene spesso traslata dal genere umano agli animali ed allora tende a farsi metafora etologica di usi e costumi umani che, portati ad un livello più basso, vengono mortificati nella loro inconsistenza.

Paul sa anche graffiare, soprattutto quando va a colpire certi atteggiamenti umani: la vanità, l’avarizia, la superbia, l’egoismo, l’approfittarsene delle proprie funzioni. Allora il suo segno diventa puntuto e acuminato, penetra nelle sembianze, portandole a valenze bestiali che sono, già di per sé, una condanna inequivocabile.

Già, perché nell’artista di origine olandese vigila quell’eterno ragazzino che lo rende attento ai valori umani, cui si approccia con l’ingenuità tipica dei bambini, con un atteggiamento sostanzialmente innocente e la voglia di leggere la vita dal lato fiabesco.

Del resto, i suoi lavori hanno l’andamento di un racconto in cui si arriva, con un atteggiamento bonario, attraverso uno stile personale basato su un disegno semplice e lineare e con una pittura d’atmosfera tendente ad effetti suggestivi e giocosi, dalle armonie di colore molto letterarie e le cui forme sono improntate ad un latente simbolismo.

Ciò è dovuto, in parte, alla poliedrica esperienza della sua attività creativa: oltre alla stampa di litografie d’arte, dobbiamo infatti annoverare logotipi e poster, manifesti, vignette umoristiche, copertine e illustrazioni di libri, che l’hanno portato ad addentrarsi nei testi di autori, quali Bernanos, Elio Vittorini, Luciano Bianciardi ,Beppe Fenoglio, Giuseppe Sermonti, Edward M. Forster, Cesare Pavese, Erasmo da Rotterdam, San Giovanni, Charles De Coster (“De legende Thijl UIlenspiegel”), Leonardo da Vinci, Borges (“Zoologia fantastica”). Cui bisogna aggiungere una produzione altrettanto significativa di libri per ragazzi.

Quando si parla di logotipi, manifesti e illustrazioni a qualcuno può sorgere il dubbio che si tratti di un’arte diversa. Ma così non è. Sono discipline che implicano notevoli sforzi di comprensione del contenuto, di interpretazione personale e di sintesi riassuntiva e significante attraverso un’immagine.

Un aspetto che merita considerazione è poi l’iter con cui arriva alla stampe delle “sue” litografie. Una procedura che assume un carattere rituale.

Si tratta di un torchio litografico di cui esistono modelli sia tedeschi che francesi. Hanno un braccio di legno coperto di cuoio, detto racla, che serve ad imprimere la pressione sulla lastra di pietra, dopo che vi è stato posto sopra il foglio di carta da stampare.

La pietra si trova sopra un carrello mobile che viene fatto scorrere, tramite una manovella o una ruota, sotto la racla che vi imprime la pressione necessaria ai fini della stampa.

Il vecchio laboratorio dove opera, la vetustà del torchio, la passione e l’esperienza che Scharff impiega, assumono un aspetto unitario e la macchina sembra obbedire come un braccio alla volontà dell’artista. Il tutto sembra un sortilegio alchemico.

Guardando l’artista che lavora, mi sovviene quanto ha lasciato detto un poeta: “Se hai l’amore nel cuore, puoi cantare anche in mezzo ad un deserto”.

 

Luglio 2012

Ettore Ceriani
Critico d’arte e giornalista